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IL PONTE SULLO STRETTO E IL RECOVERY FUND, L’ELOGIO DI ANGELA MERKEL ALL’ITALIA E MEDITERRANEI INVISIBILI: IL NESSO C’È E SI VEDE

Mediterranei Invisibili è un progetto permanente, non si esaurisce nella durata del Viaggio. Cerca connessioni e percorsi, si alimenta nella continua relazione di interesse che il Sud genera in Italia e in Europa

Il Sole 24 Ore di oggi ha pubblicato un articolo relativo a una ricerca Mastercard sull’andamento del turismo nei Paesi del G20.
In apertura del pezzo, il giornalista Gianni Rusconi ha ripreso l’affermazione della Merkel che, durante una video-conferenza tra i ministri-presidenti dei Laender, ha parlato dell’Italia come di un Paese non a rischio, nel quale è ragionevole viaggiare. Se “l’effetto Merkel”, provocherà un flusso turistico di tedeschi, sempre che la convivenza con il virus lo consenta, è da vedere. Il report di Mastercard mette in evidenza una tendenza in rapido consolidamento “… il modo di viaggiare si è andato via via adattando al nuovo scenario. La spesa per l’acquisto di carburante, ristoranti o per il noleggio di auto o biciclette riflette una maggiore propensione per i viaggi “on the road” e di prossimità, alla (ri)scoperta dei territori paesaggistici nazionali.”

“Mediterranei invisibili – Viaggio sullo Stretto” indaga i luoghi e racconta storie inaspettate con l’obiettivo di porre fine a quella sorta di oblio culturale che circonda le terre intorno al punto di scambio dei due mari, Ionio e Tirreno.
È un progetto frutto di un’iniziativa culturale e di un impegno economico privati, con il sostegno di alcune aziende, che mette insieme la ricerca sui territori, la valorizzazione delle comunità e una coraggiosa presa di coscienza sulle difficoltà esito di decenni di politiche inadeguate e sorde alle esigenze reali.

La ricerca di Mastercard ha evidenziato quello che Mediterranei Invisibili racconta da tre anni.

I primi due viaggi sono stati educate esplorazioni alla ricerca dell’invisibile, nel paesaggio e nell’architettura, ma anche attraverso i racconti delle donne e degli uomini dello Stretto, passando nel 2018 per Reggio Calabria, per l’area Grecanica con Amendolea e Gallicianò, a Filanda Cogliandro, in Costa Viola; nel 2019 per Rosarno in Calabria, a Scilla, Gerace e Messina, in Sicilia. Una narrazione costruita sul dialogo, raccogliendo testimonianze e proponendo confronti, aggregando le visioni di persone autenticamente mediterranee, diverse per estrazione, età, ruolo, che condividono, anche in contraddizione tra loro, l’identità del proprio territorio.
Il terzo viaggio, in questo complicato e sofferente 2020 (dal 17 al 20 settembre), ha segnato una svolta.

Viaggio sullo Stretto 2020. Foto di Stefano Anzini

Molte cose sono cambiate dagli anni passati.
Durante l’estate c’è stato un rilancio turistico di tutto il Sud Italia. Dopo i mesi di quarantena obbligata per contenere la diffusione del coronavirus e la limitazione degli spostamenti verso i Paesi stranieri, Calabria e Sicilia sono risultate tra le cinque regioni più visitate d’Italia. Ad affermarlo è CNA Turismo (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) insieme a Eurispes. I risultati dell’affluenza di visitatori sono stati molto al di sopra delle attese. La pandemia ha generato un flusso di interesse verso il Sud, e il Sud ha rivelato la parte più esposta del suo territorio, suscitando attenzione e curiosità anche sugli aspetti “invisibili”.

I protagonisti della terza edizione di Mediterranei Invisibili, ancora più motivati nell’esprimere, secondo la propria attitudine e senza omologarsi al linguaggio standardizzato, “l’invisibilità” dei propri luoghi, hanno celebrato con il percorso di viaggio e attraverso i dibattiti, sia i territori – in Sicilia il sistema delle valli ioniche dei Peloritani tra Capo Scaletta e Capo Sant’Alessio e in Calabria, dalla Tonnara di Palmi a Gioia Tauro – sia la forte volontà di integrazione al contesto europeo.

Coraggiosi nel denunciare le difficoltà a partire dalla mancanza di infrastrutture, alle incoerenze gestionali dei centri urbani, alle disarmonie di scala territoriale del porto di Gioia Tauro, fino all’irrisolto, doloroso nodo della ‘ndrangheta che mina la progettualità strategica, sono stati molti i sindaci che hanno partecipato ai talk di Mediterranei Invisibili: Piero Briguglio, sindaco di Nizza di Sicilia, Nancy Todaro, vice-sindaco di Alì Terme,-Natale Rao, sindaco di Alì, -Giovanni De Luca, sindaco di Fiumedinisi, Natia Lucia Basile, assessore alla cultura di Roccalumera, Rosanna Garufi, assessore alla cultura di Furci, Sebastiano Gugliotta, sindaco di Pagliara, Giuseppe Briguglio, sindaco di Mandanici; Armando Neri, vicesindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Ranuccio e Wladimiro Maisano, sindaco e  assessore al comune di Palmi, Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro, Giuseppe Idà, sindaco di Rosarno, Andrea Tripodi, sindaco di San Ferdinando.

Concordi nell’affermare che il “rinascimento” post pandemia potrebbe ricalibrare la mappa dello Stretto rilanciando gli investimenti economici in chiave culturale, turistica, agricola, anche i presidenti degli Ordini territoriali degli architetti, Salvatore Vermiglio per Reggio Calabria e Francesco Miceli per Palermo e gli “ambasciatori” di Mediterranei Invisibili – architetti attivi sul territorio, con incarichi accademici all’Università di Reggio Calabria, di Ferrara e alla Federico II di Napoli – per la Sicilia Gaetano Scarcella e Francesco Messina, per la Calabria, Salvatore Greco, Giovanni Multari, Michelangelo Pugliese, Giovanni Aurino.

In particolare, l’area di transito tra Calabria e Sicilia, governata dalla geografia e dalle limitazioni infrastrutturali, è densa di incertezze sulle direzioni da intraprendere, combattuta tra il desiderio di espansione e la volontà di proteggere un patrimonio straordinario, non certo dalla conoscenza diffusa, che anzi è auspicata, ma dall’involgarimento di una divulgazione a buon mercato.

Si innesta ed è trasversale a tutte le altre riflessioni il tema della costruzione del Ponte sullo Stretto. Sempre di oggi, un articolo di approfondimento sulla Gazzetta del Sud conferma l’esclusione del progetto del Ponte da quelli finanziabili con i fondi messi a disposizione dal Recovery Fund (più di 190 miliardi di euro al Sud, ai quali si aggiungono 123 miliardi di euro dei fondi europei e nazionali fino al 2030).
Il giornalista Lucio D’Amico analizza sia i criteri dell’esclusione, sia i riflessi positivi sull’occupazione (citando uno studio dell’università Bocconi di Milano) che la costruzione avrebbe potuto generare nei prossimi anni. Ma soprattutto sottolinea come il Ponte sia “l’infrastruttura che più di ogni altra riporterebbe il Meridione e l’area dello Stretto al centro della politica nazionale e internazionale.
E se sul Ponte le opinioni sono controverse, il nodo di riportare lo Stretto al centro geografico e politico del sud-europeo è, invece, un’opportunità significativa per tutto il Paese.
Proprio il tema della relazione tra lo Stretto e l’Europa è stata la provocazione di questa terza edizione di Mediterranei Invisibili.

Abbiamo chiesto a sindaci, architetti e presidenti degli Ordini quali siano i percorsi da intraprendere per affrontare il futuro di questi luoghi straordinari, e per rilanciare il Paese a partire dal Sud, leggendo lo Stretto in chiave europea.
La risposta è stata unanime: è possibile!
Le analisi rigorose (e impietose), la concretezza delle affermazioni, i programmi proposti raccontano di un territorio pronto a decollare, purché strategie e azioni manifestino dal basso, dalle comunità e non ci siano somministrazioni placebo da parte del Governo centrale.
Mostrare attenzione e ascolto alle richieste che le comunità esprimono, utilizzare i fondi europei e stanziare fondi dedicati, assecondando le inclinazioni territoriali: queste sono le azioni che possono governare il rilancio.

Uno dei momenti di confronto della terza edizione di Mediterrani Invisibili. Fotografia di Stefano Anzini

A più voci viene invocata la necessità di non imporre una visione precostituita – come è stato fatto in passato, per esempio come è successo alla metà degli anni Settanta, quando, nell’ambito del progetto speciale per la realizzazione delle infrastrutture sul territorio della provincia di Reggio Calabria (Delibera CIPE del 1974), è stato costruito il porto di Gioia Tauro: dimensionamento e caratteristiche strutturali dell’opera sono stati determinati dalla sua originaria destinazione funzionale a servizio degli insediamenti industriali pianificati dall’Autorità di Governo, che prevedevano la realizzazione in Calabria del V Centro Siderurgico Italiano. All’inizio degli anni Ottanta si è arrestato il programma dei lavori per la nota crisi del comparto siderurgico, in realtà già in essere, nel decennio precedente. Lo scalo è stato quindi riconvertito da porto industriale a polifunzionale con l’esigenza di rimodulare i programmi di infrastrutturazione, l’assetto operativo e i piani di sviluppo.
Ha affermato Giovanni Multari, architetto, professore alla Federico II di Napoli: “Gioia Tauro è un centro geometrico, ma anche un generatore di significati economici e politici. Luogo di mancate strategie e di occasioni perdute. Il porto di Gioia Tauro è un gigante rivolto solo verso il mare, volta le spalle alla terra, perché genera poco indotto, è autosufficiente nella funzione e nell’organizzazione ed è più incline a guardare verso il canale di Suez o verso Gibilterra che verso la sua piana.”
Ma, come ci ha raccontato Giuseppe Idà, sindaco di Rosarno “è anche il terzo in Europa e il più grande in Italia per il transhipment, il trasferimento di carico da una nave all’altra, di solito attraverso scarico in porto e ricarico; ha luogo nei porti hub dove si incrociano molte linee di navigazione con origini e destinazioni diverse. Nell’area che gravita intorno al porto si interseca e si integra il traffico di merci e di cultura.”
Anche, Salvatore Greco, architetto e consigliere dell’Ordine degli Architetti di Reggio Calabria, riporta il tema del porto alla scala territoriale. “Il porto è una Zes – zona economica speciale – questo significa che si produce e si trasforma e nel porto stesso avviene lo scambio. La mancanza di adeguate strutture su ferro, scali ferroviari, ostacola il processo di un potenziale indotto.

Assecondare il territorio significa favorire la vocazione culturale e turistica.
Ci viene ancora in aiuto Salvatore Greco “(…) io credo che sia da preferire una forma di protezione estrema a interventi sbagliati o soluzioni di recupero che rendono i borghi simili a una riserva indiana. Questo significherebbe perdere ricchezza, non guadagnarne, dare spazio a un consumo che svuota, un usa e getta dei luoghi Dobbiamo favorire un turismo delicato, non oltraggioso e arrogante.
Il paesaggio trasformato in panorama da cartolina si allinea a una indifferenziata moltitudine di paesaggi-cartolina. Il pericolo è che la ricchezza dei valori si trasformi solo in transitoria capacità d’acquisto. E poi si perda per sempre.”
Aggiunge Michelangelo Pugliese, architetto, docente alla Federico II di Napoli” La Calabria è paesaggio che non si può banalizzare con declinazioni opportunistiche legate ai luoghi, ai borghi, alle coste o alle montagne. Cominciando dai borghi, non stiamo parlando di situazioni idilliache come la parola pare richiamare indipendentemente dai contesti. Spesso i borghi non sono solo luoghi abbandonati, ma anche devastati da un’edilizia impietosamente brutta. Oltraggi compiuti e, purtroppo, sedimentati nel tempo. La complessità della loro rilettura coinvolge anche il tema di un abitare che la contemporaneità ha profondamente modificato.”
Non tutto può assumere come termine di sviluppo il paradigma turistico tradizionale, sia per mancanza di una vocazione spontanea, sia perché i luoghi non vogliono trasformarsi in tal senso. – spiega Gaetano Scarcella, architetto “versante Sicilia” – “per esempio, l’anello di Nisi è un percorso circolare di sentieri che connette i quattro centri di una vallata segnata da discreti e inediti landscape, opifici abbandonati, paesaggi agrari, qualche monumento sparso. (…) Se ha un senso che il rilancio di un territorio passi anche (non solo) dal turismo, è necessario trovare la chiave di lettura corretta e rispettosa, perché si tratta di luoghi inesplorati.”

L’inaccessibilità, la mancanza di infrastrutture fisiche è l’elemento costante, freno e ostacolo a qualsiasi ipotesi di sviluppo.
Molto forte è la posizione di Salvatore Vermiglio, presidente dell’Ordine degli Architetti di Reggio Calabria, a proposito del Ponte sullo Stretto: “Un progetto coordinato e parallelo tra ponte e infrastrutture significherebbe trasformare Sicilia e Calabria in Europa. Arretrare dall’impegno di costruire il ponte, di contro, vuol dire restare fermi, ancorati a quella visione prefabbricata del Sud, negandone le potenzialità europee e mondiali. Negare il ponte vuol dire restare invisibili. L’invisibilità del territorio non è protezione della sua bellezza, ma danno per la sua valorizzazione e diffusione. Un parallelo efficace, nella sua durezza e scomodità, è la contrapposizione tra espansione e contrazione. Il rischio di contrazione è altissimo e, in un contesto globale che tende all’espansione e all’integrazione, aumenta il pericolo di un’esclusione permanente dai processi di sviluppo.”

L’attenzione politica che si concentra, oggi, grazie al Recovery Fund, sul Sud non può prescindere dalle necessità del territorio. Fino a oggi, come ha affermato Francesco Messina, docente all’università di Ferrara, “Da parte della politica centrale c’è una totale disattenzione alle reali esigenze e anche la politica locale fatica a comprendere le priorità.”
Francesco Miceli, presidente dell’Ordine degli Architetti di Palermo amplia la visione “L’accessibilità alla fruizione del patrimonio, così come degli spazi pubblici, attiene al tema del diritto del cittadino. Infrastrutturare il territorio significa consentire a ogni singolo cittadino di accedervi.
La mancanza di accessibilità è un diritto negato al patrimonio storico e culturale”.

La difesa e la valorizzazione dei territori sullo Stretto non trovano soluzione solo nella questione infrastrutturale: i centri minori e le periferie, a cavallo tra una individualità specifica e il degrado, devono rientrare in un progetto complessivo di salvaguardia dell’identità. Spiega Miceli “il legame con il territorio più autentico è difficile da mantenere per i centri minori: diventa sempre più complesso, fino a lacerarsi e distorcersi, il rapporto tra urbanità e ruralità, Palermo ne è un esempio paradigmatico. L’intersecarsi dei brani agricoli nella periferia della città consolidata può diventare una grande risorsa: anche questi sono luoghi invisibili, di un’invisibilità diversa da quella celata dei borghi. Sono invisibili perché non si ha voglia di guardarli, ma strategici per ripensare la città, non certo per trasformarli in brani di edilizia, ma per costruire un’identità di raccordo e valorizzazione. Per non negare la sostenibilità naturale, l’intelligenza del luogo e per esaltarne la resilienza.”

Al concetto di limite naturale imposto dalla geografia si sovrappone quello di auto-limite come spiega Messina “Il limite è il vero grave problema dei nostri luoghi: lo Stretto di Messina ha una specificità geografica e politica, punto di tensione tra il territorio italiano, isola e terraferma, una grande piazza d’acqua dove la distanza tra le due sponde è “dialetticamente“ variabile. L’invisibilità è un limite legato alla difficoltà del collegamento fisico tra i luoghi, che si alimenta e si perpetua per il freno imposto dalla cultura della conservazione che si mescola, in una distorsione cognitiva, a certe politiche ambientali.
Così, un limite geografico si trasforma in un grande limite politico che disincentiva i progetti di sviluppo e favorisce l’abbandono di territori circondati da muri mentali sempre più alti”.

I territori sullo Stretto devono trovare – di diritto – il loro posto nella geografia europea. Per fare questo, suggerisce Giovanni Multari “Prima di pensare a nuovi progetti, facciamo una ricognizione sull’esistente, sui luoghi abbandonati e sui cantieri non finiti. Coinvolgiamo una rete di imprese sul territorio, affrancandoci da un sistema governato da una politica di favori che ha rovinato l’Italia tutta e in particolare il Sud.

Il progetto Mediterranei Invisibili aveva inizialmente l’obiettivo di rivelare luoghi pochi noti, fotografati o narrati. Si proponeva di soddisfare un desiderio di conoscenza di una parte unica dell’Italia.
In tre anni, il progetto è cresciuto e si è trasformato, autoalimentandosi proprio con la comprensione delle situazioni e dei territori, ponendosi obiettivi più ambiziosi, primo tra tutti quello di trasformare l’area dello Stretto in nuovo centro di energia per l’intero vecchio continente.

La fotografia d’apertura è di Mario Ferrara.

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BORGHI E PAESAGGI PARLANO DI CALABRIA. MA SONO L’IMMATERIALITÀ E LA SOSPENSIONE LA SUA PERFETTA EPIFANIA NARRATIVA con Michelangelo Pugliese

Inaspettate le considerazioni di Michelangelo Pugliese, architetto e paesaggista, docente alla Federico II di Napoli: la mutazione come elemento stabile del paesaggio e la ricerca della bellezza ovunque, anche “nel brutto”

Il Sud è territorio?
Michelangelo Pugliese non ama molto la parola territorio, afferma che evoca “un sapore anni Settanta” e una dimensione “urbanistica”. Preferisce usare “paesaggio”. Perché?

Il paesaggio partecipa a una dimensione diversa rispetto a quella del territorio, con le medesime componenti, fa perno su una comprensione empatica e senza necessità di mediazione linguistica. 
Sul piano del significato, il paesaggio è un sistema di relazioni tra uomo e natura e contiene in sé il termine progetto.
La relazione tra questi tre elementi è in evoluzione continua e questo mette subito in evidenza come l’espressione “restauro del paesaggio” sia una contraddizione in termini.
La mutazione è il carattere primo del paesaggio.
La Calabria è paesaggio che non si può banalizzare con declinazioni opportunistiche legate ai luoghi, ai borghi, alle coste o alle montagne.
Cominciando dai borghi, non stiamo parlando di situazioni idilliache come la parola pare richiamare indipendentemente dai contesti.
In Calabria non c’è un grande desiderio di tornare ai borghi, è più che altro – questa – una distorsione mediatica o un esercizio di equilibrismo tra architettura e marketing.
Spesso i borghi non sono solo luoghi abbandonati, ma anche devastati da un’edilizia impietosamente brutta. Oltraggi compiuti e, purtroppo, sedimentati nel tempo.
La complessità della loro rilettura coinvolge anche il tema di un abitare che la contemporaneità ha profondamente modificato.
Il tema di progetto, come ben insegnano le scuole di architettura spagnole, non è unico, ma si dichiara e si modula diversamente, a seconda dei luoghi e delle situazioni.
Dunque, è diverso, oggi, abitare in un borgo o in piccolo centro. Le azioni da produrre devono essere adeguate e coerenti con la dimensione storica, il passato prossimo e la prospettiva futura.
Sicuramente l’unica cosa che non si può fare è tornare e basta. Come se il ritorno al borgo avesse un valore lenitivo dell’oltraggio e taumaturgico di per sé.
Se l’abitare è mutato e il cambiamento va sostenuto con azioni progettuali, con la stessa attenzione è necessario non banalizzare il processo di attualizzazione, né trasformare l’intervento in un’azione da salotto. Un esempio di buon progetto è quello di Favara Cultur Farm, vicino ad Agrigento, che ha messo in valore culturale un luogo degradato e abbandonato.

Fotografia di Stefano Anzini.


L’esempio di Favara è notevole, ma il punto di partenza aveva dei vantaggi, i cortili moreschi nel centro storico di Favara, la prossimità ad Agrigento …  

I borghi da recuperare non partono tutti dalle medesime condizioni di affascinante abbandono e degrado avvolto dai rovi che celano straordinaria bellezza.
L’intensità di un’anima sospesa esiste, tuttavia, in tutti i centri che sono stati un tempo abitati, un’anima nascosta, talvolta molto nascosta dal “brutto”.
Credo anche che sia un vantaggio lavorare sui luoghi in cui la bellezza è più celata. La ricerca si può affrancare dai vincoli della Sovrintendenza, ma soprattutto da certi approcci culturali che non ammettono il nuovo, né prendono in considerazione l’imprevedibilità di un pensiero progettuale modulato sul paesaggio e sulle comunità.


Il nostro progetto, Mediterranei Invisibili, ha il merito unico di svelare il bello dietro il brutto, di non temere di incontrare visioni più vicine a uno scenario di desolazione che al bosco della Bella Addormentata.
Tutto questo è l’autentico Sud di oggi, Sud che convive con il brutto, che, a sua volta, convive con paesaggi meravigliosi, lingue di mare e di luce.
È la realtà del Sud, anch’essa da valorizzare e dalla quale non si può prescindere, perché è in questa realtà che vivono le comunità, memoria del passato ed energia per il futuro, vera forza del Sud.
È la dimensione immateriale che filtra la bellezza dei paesaggi e dei borghi e che rende tutto più chiaro e leggibile, una visione che esce dallo stereotipo della cartolina.
Il lavoro per l’architetto diventa più difficile perché è un impegno di ricostruzione dell’immateriale dei territori, soffocato da etichette e prospettive che ne hanno stravolto l’anima.


In questo bilanciamento di necessità e di desideri, un ruolo essenziale gioca il Tempo.
È diverso il tempo al Sud, ma non è più lento, come spesso si usa dire. È un tempo non lineare che vive di compressioni e dilazioni, in alcuni momenti si introietta rapidamente e in altri si decanta: le azioni si combinano nell’equilibrio di questi tempi dal quale si genera l’azione progettuale.
Particolarmente oggi è importante che l’architettura scenda dal podio, sia coraggiosa, assuma rischi, ammettendo anche la possibilità dell’errore.

Fotografia di Stefano Anzini.