Articles Tagged with: Ponte sullo Stretto
journal-messina-mallamo-header.jpg

A COSA SERVE LA BELLEZZA NELLO STRETTO DI MESSINA, SPIEGATO BENE DA ANNA MALLAMO

Messina è una città dolente. Talmente dolente che si fatica a vederne la bellezza. A Reggio, la nuova passeggiata con l’opera di Tresoldi, segno di crescita e speranza urbana, incontra la spazzatura abbandonata agli angoli delle strade.
Con Anna Mallamo, giornalista della Gazzetta del Sud, parliamo di visioni a senso unico che chiudono lo Stretto all’angolo, ma anche di un futuro reso possibile dalla sua Bellezza

Fondazione Italia Patria della Bellezza ha lanciato un bando “Comunicare Bellezza”, un programma di sostegno ai progetti culturali e territoriali in tutta Italia, una sorta di messa a terra di un valore storicamente apprezzato nelle sue declinazioni artistiche, ambientali e culturali, ma che non appartiene alla sfera dei bisogni primari individuali e sociali.

Intorno alla parola bellezza si usa un linguaggio denso di stratificazioni prefabbricate.

La bellezza sta nel turismo, nella storia, nel paesaggio, nel design, nella scienza e nella tecnologia, nella manifattura e nel cibo. Nei libri, nella poesia, nella fotografia. Negli uomini, nelle donne, nei bambini e nelle bambine, negli animali e nelle piante.

Quasi sempre è una bellezza aggettivo, un’attribuzione di carattere visivo o intellettuale a un soggetto definito.

Anna Mallamo al talk a Messina, Mediterranei Invisibili 2021, Viaggio sullo Stretto IV. Fotografia di Stefano Anzini.

Anna Mallamo, giornalista della Gazzetta del Sud, reggina di nascita, messinese di adozione, strettese per passione, pensa che la bellezza sia necessaria quanto il cibo, l’acqua e l’aria. Sostanzialmente quanto quello che ci tiene in vita. Anna lo sostiene partendo dagli effetti che provoca il suo contrario: desolazione, degrado, abbandono.

Dice “Il paesaggio è una determinante dell’anima” e pare quasi un’affermazione dovuta, parlando dei luoghi di Scilla e Cariddi. “Mi trovo a combattere quotidianamente con l’oblio che pervade chi vive nello Stretto e causa una cecità progressiva e selettiva: il degrado ha la meglio, si distoglie lo sguardo dal paesaggio, dunque si perde l’anima.

E da quel momento, sei in grado di vedere e raccontare solo il brutto e nel racconto è inclusa una forma di compiacimento del dolore e della tragedia che conduce all’inazione.

La prospettiva si chiude, lo Stretto è un territorio da abbandonare o da subire.”

Anna Mallamo con Alfonso Femia e gli altri partecipanti al talk a Messina, Mediterranei Invisibili 2021, Viaggio sullo Stretto IV. Fotografia di Stefano Anzini.

Futuro e Stretto: come si crea la connessione tra tempo e luogo che pare mancare?

La sola via pare essere quella del ponte sul quale si vagheggia dalla metà del Novecento, mai costruito e questo è già un buon motivo per lamentarsi. Negli ultimi decenni il ponte è diventato “il significato” alla disperata ricerca di un significante collettivo, unico possibile riscatto.

È chiaro che esistono molte altre forme di emancipazione: la passeggiata mare di Reggio Calabria, con l’opera di Tresoldi, ne è un esempio, perché i reggini – non solo i turisti – la apprezzano e la vivono, sostengono le attività commerciali di prossimità, generano ricchezza e lavoro. Anche se, dietro l’angolo, ci sono i cumuli di spazzatura che non viene smaltita e quando dai le spalle al mare, la cortina di edifici che vedi è un tessuto di segni scuciti con cui ti devi misurare ogni giorno.

In passato, Messina è stata una grande città. Ai tempi del terremoto del 1908 era il terzo porto del Mediterraneo. Non voglio fare qui un condensato di storia ma, per esempio, prima del 1908, per nove chilometri, si estendeva, sul lungomare, una Palazzata, una successione di edifici continui, costruita agli inizi dell’Ottocento, meglio conosciuta come Teatro Marino, che accoglieva una serie di funzioni -residenze, silos, magazzini.

Un’architettura d’avanguardia nel pensiero, che prendeva il posto di un’altra Palazzata, di origine molto più antica, danneggiata dal terremoto del 1783.

Alla fine del Settecento, si decise di ricostruire la Palazzata e, in termini generali, tutta la città, conservando l’assetto e l’aspetto precedente, ma dopo il 1908 si fecero scelte diverse.

La Palazzata di Simone Gullì prima del Terremoto del 1783 in un dipinto di Louis François Cassas (fonte, wikipedia).
Palazzata e statua del Nettuno prima del terremoto del 1908.
Palazzata dopo il terremoto del 1908. (fonte, wikipedia).
Palazzata di Messina, progetto di Giuseppe Samonà (fonte, wikipedia).

È pluridecennale, quasi secolare, la mancanza di visione dell’amministrazione messinese. Vent’anni fa, per esempio, la linea del tram è stata realizzata sulla litoranea, nonostante fosse stata individuato un percorso meno invasivo. Si è trattato di una scelta miope, considerando che, negli ultimi decenni, le città costiere si sono impegnate ad abbattere gli ostacoli tra città e mare. Reggio e la sua passeggiata ne sono una dimostrazione, geograficamente vicina. Il tram sulla litoranea ha avvilito ulteriormente una Messina già sofferente.

Il passato di Messina è il suo paesaggio, colline azzerate, colline ricostruite.

I messinesi si muovono tra il ricordo del passato e quello che genera lo sguardo: due memorie che producono un permanente senso di sradicamento.

Prima del 1908 c’era un modo di dire qui a Messina, per indicare uno stato di negatività, “fare più danni del 5 febbraio (giorno del terremoto del 1783). Non è solo un riferimento alla cultura popolare, rappresenta quasi un’evidenza antropologica di come “il danno” subìto abbia offerto ai messinesi il pretesto per non combattere, l’alibi per non reagire, facendo dell’inazione una categoria del vivere. Con il secondo terremoto, ancora di più, l’identità si è persa nei crolli e non c’è desiderio di recuperarla

Quello che è stato costruito – la geometria, le altezza, i materiali degli edifici – agisce sulla sensibilità percettiva delle persone, creando emozioni di positività o disagio quotidiano. Si subisce e ci si abitua agli elementi più disturbanti, alle dissonanze visive, alla mancanza di connessioni tra i brani della città, il verde, il mare.

Questo è accaduto a Messina.

Come funziona per chi resta?

La Restanza, parola efficace nel suono e nel significato, è una scelta complicata e piena di rischi.

Vittorio Teti – antropologo – parla dell’avventura del restare” (al Sud n.d.r.): “la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della «restanza» – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme”.

Il rischio è quello dell’assuefazione, della mancanza di visione fino ad arrivare alla cecità totale.

Creare una condizione culturale che costringa gli strettesi a guardare lo Stretto – conoscerlo e riconoscerlo – significa progettare un intervento culturale radicale, attivatore di un processo di rivitalizzazione continuo, non episodico, finalmente risolutore.

La capacità di vedere la bellezza dello Stretto, di Messina, di Reggio va sollecitata di continuo, perché è da troppo tempo soffocata non solo dal suo contrario, il brutto stratificato, ma ancora di più dall’inazione.

I costruttori di bellezza – scrittori, artisti, architetti – provano a dare dei colpi di frusta per riassestare lo sguardo dei loro conterranei, per rivelare l’immateriale a chi osserva da lontano, affascinato dalle leggende, timoroso di restare deluso.

Come ha fatto Nadia Terranova nel libro Addio Fantasmi e nella graphic novel Caravaggio e la ragazza (in tandem con Lelio Bonaccorso), con bellissimi disegni di Messina.

Isabella al balcone (dal libro illustrato Caravaggio e la ragazza di Nadia Terranova e Lelio Bonaccorso. Disegno di Lelio Bonaccorso)

Tornando al punto da cui è partita questa riflessione e alla domanda – come funziona per chi resta – la necessità della bellezza deve trovare una sintesi con l’economia.

L’architettura è, potenzialmente, uno degli elementi di equilibrio e conciliazione: innesta ex novo e integra le funzioni del vivere in contesti urbani di buona qualità formale in dialogo permanente con il costruito del passato e con l’ambiente naturale.

Sotto il profilo naturalistico, lo Stretto è una miniera d’oro da mettere a reddito, possibilmente non (solo) con la logica del “turismo da mungitura”, assegnando una manciata di metri quadrati di litorale a turisti assetati di sole e mare, sul modello B-movie.

Non è questo che serve agli Strettesi. Ci sono alternative che possono essere messe in campo per un turismo in cui la spiaggia sia pausa, non obiettivo: per esempio percorsi territoriali, percorsi sulla traccia delle residenze di artisti, escursioni naturalistiche ….

Questa bellezza celata, che già esiste, è diventata invisibile perché è stata mortificata da altre scelte che lo Stretto – Messina, ma anche Reggio – ha inflitto a se stesso.

Quello che emerge è l’abusivismo e una bruttezza mostruosa. Persino l’abitare ha una dimensione misera. La pervasiva speculazione ha generato un senso del possesso senza bellezza.

Ci sono, fortunatamente, molti progetti in corso …

Qualcosa è stato fatto, ma molte cose sono state lasciate a metà o interrotte. Ci sono ancora chilometri di costa da recuperare. Manca una visione politica ed economica. Quando una giunta è concentrata a difendere se stessa, non si impegna in opere importanti, ma nel rassicurare l’elettorato nel breve.

Il lavoro manca, il lavoro è priorità.

Deve essere così.

Ma “il lavoro” non è una categoria isolata. È la progettualità in settori diversi che produce lavoro. Gli strettesi hanno una miope ossessione sul “ponte” come generatore di occupazione per anni a venire, prima ancora che come elemento di connessione.

Senza considerare che oggi, in una logica di transizione ecologica, si tratterebbe, forse, di una scelta depauperante per i territori.

Con la costruzione del ponte aumenterebbe il traffico sia dei veicoli pesanti, sia dei veicoli leggeri, una visione ancorata al passato, mentre le linee guida del Green Deal europeo impongono di ridurre il trasporto su gomma.

Manca l’elaborazione culturale per qualsiasi scelta di futuro che, come conseguenza, si affievolisce sempre di più, perché non esistono le condizioni di una “restanza” serena. Le giovani generazioni non sono messe nella condizione di amare i loro luoghi.

Le acque del lago di Ganzirri a pochi chilometri dal centro di Messina sono in comunicazione con il mare adiacente per mezzo di canali, alcuni risalgono agli anni Trenta dell’Ottocento e con il lago di Faro più a nord.(fonte: archeome.it)

Cosa pensi del tema della conurbazione tra Reggio e Messina? Ci sono rischi di forzature?

Gli strettesi condividono il sistema ecologico e paesaggistico dello Stretto, ma da punti di vista differenti. Da Messina, per esempio, vediamo Villa San Giovanni, non Reggio.

La Sicilia è un’isola, Reggio sta in una penisola. Gli approcci sono diversi, ma questa eterogeneità è un valore da conservare.

L’ecosistema dello Stretto è un patrimonio incredibile da osservare, comprendere, conservare.

È importante non trascurare l’obiettivo e formulare buoni progetti per un territorio avvilito.

Per attirare il capitale, abbiamo così tanta cultura, memoria, bellezza ed è questo che importa.

Molta della bellezza dello Stretto sta più nei borghi che nella città. In che misura è immaginabile un sistema borghi?

Il progetto di una relazione tra borghi e città, sviluppato sulle infrastrutture fisiche e su quella digitale, sulla messa in sicurezza dai rischi idrici, ha grandi potenzialità. Sotto il profilo economico è la dimostrazione che la bellezza del territorio può creare ricchezza stabile, indipendente dalla stagionalità turistica.

Le città più marginali, come Messina, possono dire molto su un possibile binomio borghi-città, non come scelta alternativa, borghi o città, ma come sistema di relazioni che si attiva a scale differenti per distanza e tempo.

È fondamentale partire dalle realtà culturali che amplificano le specificità del territorio in modo attivo e concreto e rappresentano il bello che avanza.

Anna Mallamo, “strettese” (reggina, vive a Messina da molti anni), lavora come giornalista alla Gazzetta del Sud, dove dirige il settore Cultura e spettacoli. Ha tenuto una rubrica fissa per alcuni anni su “L’Unità” e ha un blog sull’Huffington Post. È molto attiva sui social, con l’account @manginobrioches.

Dettagli allegato 200919_Mediterranei-Invisibili_∏Stefano-Anzini Ponte sullo Stretto

IL SUD DEVE COMPRENDERE SE STESSO E LE SUE VOCAZIONI. E L’ITALIA TUTTA DEVE RENDERSI CONTO CHE SENZA UN SUD FORTE CONTINUERÀ A SEGNARE IL PASSO: È UNA QUESTIONE DI GEOPOLITICA con Laura Pavia

Laura Pavia, architetto e docente a contratto all’Università della Basilicata è una delle anime del progetto Rigenerare a Sud/Rigenerare il Sud e ha le idee chiare sulle vie da intraprendere per trasformare il Meridione in un centro propulsivo per l’economia. La sua visione è lucida e rovescia la prospettiva: il Paese riparte solo se riparte il Sud.

Non scherziamo sull’argomento infrastrutture: sono necessarie, non c’è un’alternativa possibile pena la recessione e la stagnazione. E serve il Ponte sullo Stretto.
Un esordio deciso quello di Laura che ha partecipato per la prima volta a Mediterranei Invisibili quest’anno.

Laura Pavia con Alfonso Femia in Mediterranei Invisibili – Viaggio nello Stretto III, talk del 19 settembre 2020. Fotografia di Stefano Anzini.


Ci sono, al Sud, regioni con sofferenze infrastrutturali acute e regioni che stanno un po’ meglio, grazie anche alla loro collocazione geografica ma, al di là dei casi specifici, costruire le connessioni fisiche necessarie, salvaguardando gli aspetti ambientali e paesaggistici, è fondamentale per lo sviluppo. Non attivarsi in tal senso esprime solo la volontà negativa di tenere il meridione sempre un passo indietro.
Dissesto idrogeologico, complessità morfologiche del territorio sono ostacoli superabili: l’Italia ha i migliori ingegneri e le migliori tecnologie, tanto che esporta questa cultura tecnica in tutto il mondo dai primi anni del secolo scorso e ha contribuito a costruire ponti, dighe e strade nelle situazioni geografiche più improbabili.
Ora avremmo a disposizione anche i soldi del Recovery Fund.
Eppure, si continua a procrastinare, prima di tutto sul tema del Ponte. Il Governo, nella figura dell’attuale Ministro per il Sud e per la coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, si è espresso chiaramente “Il ponte non è finanziabile e i tempi sono incompatibili con quelli del Recovery Fund”.
Provenzano sostiene che le priorità siano altre, per esempio l’Alta Velocità per la Calabria e la Sicilia, che potrebbero garantire una mobilità quotidiana dignitosa ai cittadini. 
Ma stiamo parlando di tre chilometri di ponte: non costruirlo, nel 2020, significa tenere il Sud un passo indietro.
E l’Italia ferma.


Il Ponte non serve (solo) a collegare la Sicilia con l’Italia. Bisogna allargare lo sguardo: per esempio, chi continua ad avvantaggiarsi delle lacune infrastrutturali del nostro meridione è il porto di Rotterdam. Va detto che c’è anche un triste aspetto campanilistico nazionale, Genova e Trieste non vogliono perdere primati e potere economico sulla piazza europea. Abbiamo la possibilità di riattribuire alla Sicilia (e all’Italia) il ruolo di vera frontiera del Mediterraneo, considerando anche la stretta correlazione con il Canale di Sicilia (che gli inglesi chiamano sbrigativamente Stretto di Sicilia) tra Italia e nord-Africa, sensibilissima zona su diversi fronti: militare, commerciale ed economico per le connessioni energetiche e digitali.
Continuare a leggere il valore del Ponte sullo Stretto di Messina esclusivamente come passaggio tra Calabria e Sicilia rivela una grave miopia geopolitica.
Il Mediterraneo della Sicilia non è neppure un tema solo europeo, ma internazionale, mai così importante come in questo momento storico: riprendendo un’affermazione dell’ammiraglio Mario Rino Me, in un articolo di Limes, Africa e medio-Oriente, i commerci cinesi e le manovre russe “materializzano nel Mare Nostrum una competizione fra imperi simile al Great Game ottocentesco fra Mosca e Londra”.
Questo per chiarire che la domanda giusta da porsi non è se costruire il Ponte, ma come farlo nel tempo più veloce possibile.


Poi ci sono altre considerazioni, ad ambito più circoscritto, nazionale ed europeo: per esempio, l’alta velocità finisce praticamente a Roma (Napoli); c’è un tratto della linea adriatica ferroviaria, tra Termoli e Lesina, che è ancora a binario unico, dai tempi di Vittorio Emanuele II.
Da Bari a Reggio Calabria il tempo medio di percorrenza in treno è di quasi 10 ore, per coprire 350 chilometri.
Ecco, dunque, perché il Sud come luogo di investimento è logisticamente poco appetibile ed economicamente insostenibile.
Di nuovo il problema non è (solo) meridionale, ma dell’Italia tutto che si propone smezzata agli investitori internazionali con una potenzialità inattiva e impedente dello sviluppo nazionale.
Un’Italia a due velocità non può più funzionare nel 2020, … se mai ha funzionato.
La Puglia è l’esempio di quello che il Sud può fare e dare all’Italia; si è completamente rinnovata attraverso una politica generativa, affrancandosi dagli stereotipi secolari, mettendo a punto programmi che si proiettano di vent’anni avanti (il qui e ora non ha senso), attivando la straordinaria risorsa delle nuove generazioni e puntando sulla dimensione reale del territorio: la cultura, l’agricoltura e il turismo.
Un’operazione diversa nei contenuti, ma simile nei processi, è stata quella che ha visto Matera protagonista nel 2019 come Capitale Europea della Cultura: la città della vergogna dei Sassi è tornata a credere in se stessa e nel valore millenario della sua identità.

Sul tema degli stereotipi … il Sud è mafia e malavita. Di recente Emiliano Morreale ha pubblicato una storia a fumetti dal titolo “La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema”, in cui racconta come la mafia siciliana sia stata protagonista “di decine di film e di fiction televisive, con un corredo riconoscibile e stereotipato di personaggi, situazioni, immagini: un codice che si è sovrapposto agli eventi storici, li ha modellati e ne ha influenzato la percezione”. Si tratta di un modello negativo non solo sul piano culturale, ma soprattutto su quello dell’economia reale. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
C’è la storia. E poi c’è un tema di attualità in cui risulta molto facile colpevolizzare il Sud, assegnandogli l’etichetta di “mafia”, come se, anche oggi, la responsabilità fosse solo nostra.
Mafia e ‘ndrangheta colonizzano anche i territori lombardi o veneti o piemontesi, e riescono a farlo perché trovano terreno fertile, cioè soggetti importanti per capacità economica, disposti ad accogliere dinamiche illegali e a integrarle nei processi di sviluppo, talvolta apparentemente virtuosi.
Il pregiudizio è radicato e sembra ancora molto lungo il cammino da compiere per estirparlo.

Fotografia di Stefano Anzini.


Cosa può accelerare lo sviluppo del Sud e offrire un punto di partenza aggiornato e più forte come piattaforma di rilancio globale? Intendo nell’attesa che si costruiscano ponti e strade e si attivino le politiche generative di cui abbiamo parlato?
Un tema importante e che mi è particolarmente caro è quello dell’università.
Penso che molte città del Sud potrebbero trasformarsi in città universitarie, creando uno straordinario indotto, composto dai ricercatori e dai fuori sede italiani e internazionali (Covid a parte). La città di Taranto, per esempio, nel suo centro storico ospita ben tre sedi universitarie, oltre le altre sei dislocate nella città nuova. Se Taranto, gravata da problemi enormi legati alla sua zona industriale, riuscisse ad implementare i servizi ad esse connessi, seguendo l’esempio di città come Urbino o Trento, potrebbe contribuire all’importante processo di rinnovamento e di rigenerazione urbana che in questo momento sta interessando non solo il centro storico, ma anche l’intera città.
Investimenti mirati in comunicazione, un minimo potenziamento e razionalizzazione dei voli aerei, potrebbero realmente rendere attraente e culturalmente prestigioso studiare dove c’è tanta storia e tanta cultura, tanta architettura, tanta arte e tanto paesaggio.
Il problema storico delle università del Sud è quello dei finanziamenti. Ricevono una minor quota di finanziamenti e questa “sete perenne” di denaro frena gli investimenti sulla ricerca. Non si possono importare ricercatori perché non ci sono le condizioni economiche al contorno, ma continua l’emorragia delle intelligenze locali che preferiscono spostarsi al nord o all’estero.
E al Sud, spesso, mancano gli investimenti privati che potrebbero compensare le lacune pubbliche, semplicemente perché non c’è industria.
Il Sud non ha mai avuto una vocazione industriale, qualsiasi tentativo fatto, in passato, è stato una forzatura, un calare dall’alto decisioni calibrate non sui bisogni reali, ma su necessità immaginate da parte degli amministratori, spesso non da quelli locali, ma dal Governo centrale.

Da dove partire, allora, per ribaltare lo scenario meridionale?
È la narrazione che genera prima la visione e poi il progetto. Occorre partire dal racconto di luoghi, paesaggi, persone, esattamente come fa Mediterranei Invisibili e come fa l’Università della Basilicata con il progetto Rigenerare a Sud/Rigenerare il Sud.
Spesso quando indaghiamo nei territori del Sud, nei paesi e nelle piccole città, nei borghi, ci sentiamo chiedere “perché siete qui, se qui non c’è nulla?”.
È una condizione ricorrente nel Sud e in tutti i Sud del mondo l’incapacità di vedere architettura, ambiente e paesaggi a casa propria.

La pandemia è stata l’occasione per organizzare un ciclo di seminari online, nati da un’idea mia e di Ina Macaione, per il Laboratorio di Fenomenologia dell’Architettura di Matera. Abbiamo avvertito l’esigenza di dare voce a tante esperienze importanti di rigenerazione urbana in atto nel Sud, portate avanti da persone del Sud, che però ci apparivano isolate e distanti fra loro. Nella consapevolezza che non parlare di qualcosa equivale a ignorarla e a condannarla all’oblio, in più di quarantacinque seminari abbiamo dialogato con docenti, ricercatori, studenti, professionisti, amministratori, associazioni e liberi cittadini. Da questo lungo e anche faticoso racconto, è emersa tutta la ricchezza e la vitalità di un Sud che è attivo, si impegna sul campo e vuole costruire una rete di relazioni, conoscenze, abilità ed esperienze che sono strettamente legate alle peculiarità dei territori del Sud. Rigenerare a Sud/Rigenerare il Sud indica con chiarezza una strategia d’azione: senza il coinvolgimento e la partecipazione diretta dei cittadini che vivono nel Meridione non è possibile avviare percorsi di rigenerazione del territorio urbano. Soprattutto, non è possibile quel racconto che cambia lo sguardo su se stessi e sull’intorno e che genera l’amore verso i territori e il desiderio di restare o tornare al Sud.

Le esperienze raccontate in questo ciclo di seminari saranno a breve pubblicate in un Atlante della rigenerazione urbana a Sud, un’opera aperta, uno sguardo attivo sul Meridione che speriamo sia solo l’inizio di lungo percorso di condivisione e collaborazione con tutti i rigeneratori del Sud.

Per trovare il progetto Rigenerare a Sud/Rigenerare il Sud nei Social:
instagram: rigenerareasud_rigenerareilsud
facebook: Rigenerare a Sud / Rigenerare il Sud
youtube: Nature City Lab

La foto in apertura è di Stefano Anzini.


MED-INV-JOURNAL-VIAGGIO-3-FERRARA

IL PONTE SULLO STRETTO E IL RECOVERY FUND, L’ELOGIO DI ANGELA MERKEL ALL’ITALIA E MEDITERRANEI INVISIBILI: IL NESSO C’È E SI VEDE

Mediterranei Invisibili è un progetto permanente, non si esaurisce nella durata del Viaggio. Cerca connessioni e percorsi, si alimenta nella continua relazione di interesse che il Sud genera in Italia e in Europa

Il Sole 24 Ore di oggi ha pubblicato un articolo relativo a una ricerca Mastercard sull’andamento del turismo nei Paesi del G20.
In apertura del pezzo, il giornalista Gianni Rusconi ha ripreso l’affermazione della Merkel che, durante una video-conferenza tra i ministri-presidenti dei Laender, ha parlato dell’Italia come di un Paese non a rischio, nel quale è ragionevole viaggiare. Se “l’effetto Merkel”, provocherà un flusso turistico di tedeschi, sempre che la convivenza con il virus lo consenta, è da vedere. Il report di Mastercard mette in evidenza una tendenza in rapido consolidamento “… il modo di viaggiare si è andato via via adattando al nuovo scenario. La spesa per l’acquisto di carburante, ristoranti o per il noleggio di auto o biciclette riflette una maggiore propensione per i viaggi “on the road” e di prossimità, alla (ri)scoperta dei territori paesaggistici nazionali.”

“Mediterranei invisibili – Viaggio sullo Stretto” indaga i luoghi e racconta storie inaspettate con l’obiettivo di porre fine a quella sorta di oblio culturale che circonda le terre intorno al punto di scambio dei due mari, Ionio e Tirreno.
È un progetto frutto di un’iniziativa culturale e di un impegno economico privati, con il sostegno di alcune aziende, che mette insieme la ricerca sui territori, la valorizzazione delle comunità e una coraggiosa presa di coscienza sulle difficoltà esito di decenni di politiche inadeguate e sorde alle esigenze reali.

La ricerca di Mastercard ha evidenziato quello che Mediterranei Invisibili racconta da tre anni.

I primi due viaggi sono stati educate esplorazioni alla ricerca dell’invisibile, nel paesaggio e nell’architettura, ma anche attraverso i racconti delle donne e degli uomini dello Stretto, passando nel 2018 per Reggio Calabria, per l’area Grecanica con Amendolea e Gallicianò, a Filanda Cogliandro, in Costa Viola; nel 2019 per Rosarno in Calabria, a Scilla, Gerace e Messina, in Sicilia. Una narrazione costruita sul dialogo, raccogliendo testimonianze e proponendo confronti, aggregando le visioni di persone autenticamente mediterranee, diverse per estrazione, età, ruolo, che condividono, anche in contraddizione tra loro, l’identità del proprio territorio.
Il terzo viaggio, in questo complicato e sofferente 2020 (dal 17 al 20 settembre), ha segnato una svolta.

Viaggio sullo Stretto 2020. Foto di Stefano Anzini

Molte cose sono cambiate dagli anni passati.
Durante l’estate c’è stato un rilancio turistico di tutto il Sud Italia. Dopo i mesi di quarantena obbligata per contenere la diffusione del coronavirus e la limitazione degli spostamenti verso i Paesi stranieri, Calabria e Sicilia sono risultate tra le cinque regioni più visitate d’Italia. Ad affermarlo è CNA Turismo (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) insieme a Eurispes. I risultati dell’affluenza di visitatori sono stati molto al di sopra delle attese. La pandemia ha generato un flusso di interesse verso il Sud, e il Sud ha rivelato la parte più esposta del suo territorio, suscitando attenzione e curiosità anche sugli aspetti “invisibili”.

I protagonisti della terza edizione di Mediterranei Invisibili, ancora più motivati nell’esprimere, secondo la propria attitudine e senza omologarsi al linguaggio standardizzato, “l’invisibilità” dei propri luoghi, hanno celebrato con il percorso di viaggio e attraverso i dibattiti, sia i territori – in Sicilia il sistema delle valli ioniche dei Peloritani tra Capo Scaletta e Capo Sant’Alessio e in Calabria, dalla Tonnara di Palmi a Gioia Tauro – sia la forte volontà di integrazione al contesto europeo.

Coraggiosi nel denunciare le difficoltà a partire dalla mancanza di infrastrutture, alle incoerenze gestionali dei centri urbani, alle disarmonie di scala territoriale del porto di Gioia Tauro, fino all’irrisolto, doloroso nodo della ‘ndrangheta che mina la progettualità strategica, sono stati molti i sindaci che hanno partecipato ai talk di Mediterranei Invisibili: Piero Briguglio, sindaco di Nizza di Sicilia, Nancy Todaro, vice-sindaco di Alì Terme,-Natale Rao, sindaco di Alì, -Giovanni De Luca, sindaco di Fiumedinisi, Natia Lucia Basile, assessore alla cultura di Roccalumera, Rosanna Garufi, assessore alla cultura di Furci, Sebastiano Gugliotta, sindaco di Pagliara, Giuseppe Briguglio, sindaco di Mandanici; Armando Neri, vicesindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Ranuccio e Wladimiro Maisano, sindaco e  assessore al comune di Palmi, Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro, Giuseppe Idà, sindaco di Rosarno, Andrea Tripodi, sindaco di San Ferdinando.

Concordi nell’affermare che il “rinascimento” post pandemia potrebbe ricalibrare la mappa dello Stretto rilanciando gli investimenti economici in chiave culturale, turistica, agricola, anche i presidenti degli Ordini territoriali degli architetti, Salvatore Vermiglio per Reggio Calabria e Francesco Miceli per Palermo e gli “ambasciatori” di Mediterranei Invisibili – architetti attivi sul territorio, con incarichi accademici all’Università di Reggio Calabria, di Ferrara e alla Federico II di Napoli – per la Sicilia Gaetano Scarcella e Francesco Messina, per la Calabria, Salvatore Greco, Giovanni Multari, Michelangelo Pugliese, Giovanni Aurino.

In particolare, l’area di transito tra Calabria e Sicilia, governata dalla geografia e dalle limitazioni infrastrutturali, è densa di incertezze sulle direzioni da intraprendere, combattuta tra il desiderio di espansione e la volontà di proteggere un patrimonio straordinario, non certo dalla conoscenza diffusa, che anzi è auspicata, ma dall’involgarimento di una divulgazione a buon mercato.

Si innesta ed è trasversale a tutte le altre riflessioni il tema della costruzione del Ponte sullo Stretto. Sempre di oggi, un articolo di approfondimento sulla Gazzetta del Sud conferma l’esclusione del progetto del Ponte da quelli finanziabili con i fondi messi a disposizione dal Recovery Fund (più di 190 miliardi di euro al Sud, ai quali si aggiungono 123 miliardi di euro dei fondi europei e nazionali fino al 2030).
Il giornalista Lucio D’Amico analizza sia i criteri dell’esclusione, sia i riflessi positivi sull’occupazione (citando uno studio dell’università Bocconi di Milano) che la costruzione avrebbe potuto generare nei prossimi anni. Ma soprattutto sottolinea come il Ponte sia “l’infrastruttura che più di ogni altra riporterebbe il Meridione e l’area dello Stretto al centro della politica nazionale e internazionale.
E se sul Ponte le opinioni sono controverse, il nodo di riportare lo Stretto al centro geografico e politico del sud-europeo è, invece, un’opportunità significativa per tutto il Paese.
Proprio il tema della relazione tra lo Stretto e l’Europa è stata la provocazione di questa terza edizione di Mediterranei Invisibili.

Abbiamo chiesto a sindaci, architetti e presidenti degli Ordini quali siano i percorsi da intraprendere per affrontare il futuro di questi luoghi straordinari, e per rilanciare il Paese a partire dal Sud, leggendo lo Stretto in chiave europea.
La risposta è stata unanime: è possibile!
Le analisi rigorose (e impietose), la concretezza delle affermazioni, i programmi proposti raccontano di un territorio pronto a decollare, purché strategie e azioni manifestino dal basso, dalle comunità e non ci siano somministrazioni placebo da parte del Governo centrale.
Mostrare attenzione e ascolto alle richieste che le comunità esprimono, utilizzare i fondi europei e stanziare fondi dedicati, assecondando le inclinazioni territoriali: queste sono le azioni che possono governare il rilancio.

Uno dei momenti di confronto della terza edizione di Mediterrani Invisibili. Fotografia di Stefano Anzini

A più voci viene invocata la necessità di non imporre una visione precostituita – come è stato fatto in passato, per esempio come è successo alla metà degli anni Settanta, quando, nell’ambito del progetto speciale per la realizzazione delle infrastrutture sul territorio della provincia di Reggio Calabria (Delibera CIPE del 1974), è stato costruito il porto di Gioia Tauro: dimensionamento e caratteristiche strutturali dell’opera sono stati determinati dalla sua originaria destinazione funzionale a servizio degli insediamenti industriali pianificati dall’Autorità di Governo, che prevedevano la realizzazione in Calabria del V Centro Siderurgico Italiano. All’inizio degli anni Ottanta si è arrestato il programma dei lavori per la nota crisi del comparto siderurgico, in realtà già in essere, nel decennio precedente. Lo scalo è stato quindi riconvertito da porto industriale a polifunzionale con l’esigenza di rimodulare i programmi di infrastrutturazione, l’assetto operativo e i piani di sviluppo.
Ha affermato Giovanni Multari, architetto, professore alla Federico II di Napoli: “Gioia Tauro è un centro geometrico, ma anche un generatore di significati economici e politici. Luogo di mancate strategie e di occasioni perdute. Il porto di Gioia Tauro è un gigante rivolto solo verso il mare, volta le spalle alla terra, perché genera poco indotto, è autosufficiente nella funzione e nell’organizzazione ed è più incline a guardare verso il canale di Suez o verso Gibilterra che verso la sua piana.”
Ma, come ci ha raccontato Giuseppe Idà, sindaco di Rosarno “è anche il terzo in Europa e il più grande in Italia per il transhipment, il trasferimento di carico da una nave all’altra, di solito attraverso scarico in porto e ricarico; ha luogo nei porti hub dove si incrociano molte linee di navigazione con origini e destinazioni diverse. Nell’area che gravita intorno al porto si interseca e si integra il traffico di merci e di cultura.”
Anche, Salvatore Greco, architetto e consigliere dell’Ordine degli Architetti di Reggio Calabria, riporta il tema del porto alla scala territoriale. “Il porto è una Zes – zona economica speciale – questo significa che si produce e si trasforma e nel porto stesso avviene lo scambio. La mancanza di adeguate strutture su ferro, scali ferroviari, ostacola il processo di un potenziale indotto.

Assecondare il territorio significa favorire la vocazione culturale e turistica.
Ci viene ancora in aiuto Salvatore Greco “(…) io credo che sia da preferire una forma di protezione estrema a interventi sbagliati o soluzioni di recupero che rendono i borghi simili a una riserva indiana. Questo significherebbe perdere ricchezza, non guadagnarne, dare spazio a un consumo che svuota, un usa e getta dei luoghi Dobbiamo favorire un turismo delicato, non oltraggioso e arrogante.
Il paesaggio trasformato in panorama da cartolina si allinea a una indifferenziata moltitudine di paesaggi-cartolina. Il pericolo è che la ricchezza dei valori si trasformi solo in transitoria capacità d’acquisto. E poi si perda per sempre.”
Aggiunge Michelangelo Pugliese, architetto, docente alla Federico II di Napoli” La Calabria è paesaggio che non si può banalizzare con declinazioni opportunistiche legate ai luoghi, ai borghi, alle coste o alle montagne. Cominciando dai borghi, non stiamo parlando di situazioni idilliache come la parola pare richiamare indipendentemente dai contesti. Spesso i borghi non sono solo luoghi abbandonati, ma anche devastati da un’edilizia impietosamente brutta. Oltraggi compiuti e, purtroppo, sedimentati nel tempo. La complessità della loro rilettura coinvolge anche il tema di un abitare che la contemporaneità ha profondamente modificato.”
Non tutto può assumere come termine di sviluppo il paradigma turistico tradizionale, sia per mancanza di una vocazione spontanea, sia perché i luoghi non vogliono trasformarsi in tal senso. – spiega Gaetano Scarcella, architetto “versante Sicilia” – “per esempio, l’anello di Nisi è un percorso circolare di sentieri che connette i quattro centri di una vallata segnata da discreti e inediti landscape, opifici abbandonati, paesaggi agrari, qualche monumento sparso. (…) Se ha un senso che il rilancio di un territorio passi anche (non solo) dal turismo, è necessario trovare la chiave di lettura corretta e rispettosa, perché si tratta di luoghi inesplorati.”

L’inaccessibilità, la mancanza di infrastrutture fisiche è l’elemento costante, freno e ostacolo a qualsiasi ipotesi di sviluppo.
Molto forte è la posizione di Salvatore Vermiglio, presidente dell’Ordine degli Architetti di Reggio Calabria, a proposito del Ponte sullo Stretto: “Un progetto coordinato e parallelo tra ponte e infrastrutture significherebbe trasformare Sicilia e Calabria in Europa. Arretrare dall’impegno di costruire il ponte, di contro, vuol dire restare fermi, ancorati a quella visione prefabbricata del Sud, negandone le potenzialità europee e mondiali. Negare il ponte vuol dire restare invisibili. L’invisibilità del territorio non è protezione della sua bellezza, ma danno per la sua valorizzazione e diffusione. Un parallelo efficace, nella sua durezza e scomodità, è la contrapposizione tra espansione e contrazione. Il rischio di contrazione è altissimo e, in un contesto globale che tende all’espansione e all’integrazione, aumenta il pericolo di un’esclusione permanente dai processi di sviluppo.”

L’attenzione politica che si concentra, oggi, grazie al Recovery Fund, sul Sud non può prescindere dalle necessità del territorio. Fino a oggi, come ha affermato Francesco Messina, docente all’università di Ferrara, “Da parte della politica centrale c’è una totale disattenzione alle reali esigenze e anche la politica locale fatica a comprendere le priorità.”
Francesco Miceli, presidente dell’Ordine degli Architetti di Palermo amplia la visione “L’accessibilità alla fruizione del patrimonio, così come degli spazi pubblici, attiene al tema del diritto del cittadino. Infrastrutturare il territorio significa consentire a ogni singolo cittadino di accedervi.
La mancanza di accessibilità è un diritto negato al patrimonio storico e culturale”.

La difesa e la valorizzazione dei territori sullo Stretto non trovano soluzione solo nella questione infrastrutturale: i centri minori e le periferie, a cavallo tra una individualità specifica e il degrado, devono rientrare in un progetto complessivo di salvaguardia dell’identità. Spiega Miceli “il legame con il territorio più autentico è difficile da mantenere per i centri minori: diventa sempre più complesso, fino a lacerarsi e distorcersi, il rapporto tra urbanità e ruralità, Palermo ne è un esempio paradigmatico. L’intersecarsi dei brani agricoli nella periferia della città consolidata può diventare una grande risorsa: anche questi sono luoghi invisibili, di un’invisibilità diversa da quella celata dei borghi. Sono invisibili perché non si ha voglia di guardarli, ma strategici per ripensare la città, non certo per trasformarli in brani di edilizia, ma per costruire un’identità di raccordo e valorizzazione. Per non negare la sostenibilità naturale, l’intelligenza del luogo e per esaltarne la resilienza.”

Al concetto di limite naturale imposto dalla geografia si sovrappone quello di auto-limite come spiega Messina “Il limite è il vero grave problema dei nostri luoghi: lo Stretto di Messina ha una specificità geografica e politica, punto di tensione tra il territorio italiano, isola e terraferma, una grande piazza d’acqua dove la distanza tra le due sponde è “dialetticamente“ variabile. L’invisibilità è un limite legato alla difficoltà del collegamento fisico tra i luoghi, che si alimenta e si perpetua per il freno imposto dalla cultura della conservazione che si mescola, in una distorsione cognitiva, a certe politiche ambientali.
Così, un limite geografico si trasforma in un grande limite politico che disincentiva i progetti di sviluppo e favorisce l’abbandono di territori circondati da muri mentali sempre più alti”.

I territori sullo Stretto devono trovare – di diritto – il loro posto nella geografia europea. Per fare questo, suggerisce Giovanni Multari “Prima di pensare a nuovi progetti, facciamo una ricognizione sull’esistente, sui luoghi abbandonati e sui cantieri non finiti. Coinvolgiamo una rete di imprese sul territorio, affrancandoci da un sistema governato da una politica di favori che ha rovinato l’Italia tutta e in particolare il Sud.

Il progetto Mediterranei Invisibili aveva inizialmente l’obiettivo di rivelare luoghi pochi noti, fotografati o narrati. Si proponeva di soddisfare un desiderio di conoscenza di una parte unica dell’Italia.
In tre anni, il progetto è cresciuto e si è trasformato, autoalimentandosi proprio con la comprensione delle situazioni e dei territori, ponendosi obiettivi più ambiziosi, primo tra tutti quello di trasformare l’area dello Stretto in nuovo centro di energia per l’intero vecchio continente.

La fotografia d’apertura è di Mario Ferrara.